Sección Especial
Biografie politiche e carriere transnazionali. Mobilità e stanzialità nella Monarchia Spagnola nella prospettiva della storiografia italiana
Biografías políticas y carreras trasnacionales. Mobilidad y permanencia en la Monarquía Hispánica desde la perspectiva de la historiografía italiana
Political biographies and transnational careers. Mobility and permanence in the Spanish Monarchy from the perspective of Italian historiography
Biografie politiche e carriere transnazionali. Mobilità e stanzialità nella Monarchia Spagnola nella prospettiva della storiografia italiana
Prohistoria. Historia, políticas de la historia, no. 39, 1-19, 2023
Prohistoria Ediciones
Received: 15 February 2023
Accepted: 12 May 2023
Published: 16 June 2023
Sommario: Nelle ultime decadi la storiografia italiana si è arricchita di nuovi percorsi di ricerca che hanno contribuito a comprendere il funzionamento della Monarchia spagnola in età moderna. In particolare, gli studi condotti sugli attori politici che costruirono le loro carriere negli spazi mediterranei e atlantici hanno messo in evidenza quanto si possa ricostruire una storia connessa che parta dalle esperienze dei singoli e che ponga la giusta attenzione sia alla circolazione dei saperi, sia alle relazioni tessute a livello locale.
Parole: Monarchia spagnola, Carriere transnazionali, Giovanni Vincenzo Casali, Carmine Nicola Caracciolo.
Resumen: En las últimas décadas, la historiografía italiana se ha enriquecido con nuevas investigaciones que han contribuido a comprender el funcionamiento de la Monarquía Hispánica en la Edad Moderna. En especial, los estudios sobre los actores políticos que construyeron su carrera en los espacios mediterráneos y atlánticos han puesto en evidencia las posibilidades de reconstruir una historia conectada que, a partir de las experiencias particulares, otorgue la debida atención tanto a la circulación de los saberes, como a las relaciones sostenidas en el nivel local.
Palabras clave: Monarquía Hispánica, Carreras Trasnacionales, Giovanni Vincenzo Casali, Carmine Nicola Caracciolo.
Abstract: In recent decades Italian historiography has been enriched by new research that has allowed us to understand the functioning of the Spanish Monarchy in the Modern Age. In particular, studies carried out on political actors who built their careers in the Mediterranean and Atlantic areas have highlighted how we can reconstruct a connected history that, starting from the individual experiences, gives due attention to both the circulation of knowledge and the relations at the local level.
Keywords: Spanish Monarchy, Transnational Careers, Giovanni Vincenzo Casali, Carmine Nicola Caracciolo.
Premessa. Storiografia italiana e Monarchia spagnola tra XIX e XX secolo[1]
Dalla fine dell’Ottocento l’attenzione della storiografia italiana nei confronti della Monarchia Spagnola dell’età moderna ha costituito una costante negli studi di carattere politico, sociale ed economico. Risultato di una riflessione sui secoli che precedettero il processo di unificazione e, in particolare, sulle motivazioni che rallentarono e ostacolarono la nascita dello Stato nazionale, gli studi che videro la luce in età positivistica insistettero frequentemente sulla natura dei rapporti che, tra il XV e il XVIII secolo, intercorsero fra le due penisole del Mediterraneo. Una lettura che verteva essenzialmente sul carattere “coloniale” della dominazione spagnola in Italia, soprattutto all’indomani della pace di Cateau Cambresis (1559), e sulla riduzione dei territori della penisola a passive aree periferiche, costrette a subire le linee di governo elaborate dal sovrano e dal suo entourage.
Questo filone storiografico, alimentato da forti spinte nazionalistiche, diede vita al noto paradigma della “leyenda negra”, attorno al quale ruotarono a lungo le ricerche sui primi secoli dell’età moderna. Così, ancora fino alla metà del XX secolo, le indagini che gli storici italiani condussero sulla natura e sul funzionamento della Monarchia spagnola furono fortemente influenzate da una tradizione di studi che aveva costruito la sua fortuna sull’idea che i rapporti che legavano Madrid alle province fossero equiparabili a dei tranfertdi modelli politici e culturali e che i territori della Corona –e in particolare, per l’appunto, quelli che insistevano sulla penisola italiana– fossero esclusivamente chiamati a partecipare attraverso l’invio di risorse umane, materiali e finanziarie.
Solo il rinnovamento storiografico che si andò progressivamente definendo nelle ultime decadi del secolo scorso riuscì a restituire la giusta complessità a dei fenomeni che non potevano essere ricondotti alla monolitica e cristallizzata visione di un centro promulgatore di leggi e a molteplici periferie esecutrici di ordini. Lo studio delle istituzioni e del loro funzionamento, la ricostruzione delle relazioni fra le diverse aree della Monarchia e fra queste e i poli politici esterni –si pensi, per rimanere nel contesto della penisola italiana, allo Stato pontificio, alla repubblica di Genova e Venezia, fra gli altri–, così come l’attenzione rivolta alla permanenza di poteri locali concorrenti (dai parlamenti, ai tribunali, ai senati cittadini), hanno consentito di modificare il quadro fino ad allora delineato e di comprendere le dinamiche che determinarono l’evoluzione politica –dal consolidamento alla decadenza– della Monarchia spagnola durante la dominazione asburgica.
I pregevoli studi, soprattutto di carattere metodologico, che iniziarono a proliferare negli anni Novanta, presentarono dunque elementi di discontinuità rispetto alla tradizione storiografica precedente, mutando prospettive e tracciando nuovi percorsi di ricerca, capaci di legare la dimensione politica a quella culturale, sociale e religiosa. Inoltre, se fino ad allora gli assetti politici e le pratiche di governo erano analizzati in maniera teleologica, al fine di rafforzare il paradigma di uno stato moderno centralizzato, negli anni successivi si è posta maggiore attenzione a cogliere gli elementi di difformità e non di omologazione e all’importanza della specificità delle cosiddette aree periferiche. A queste ultime si è riconosciuta una dialettica politica di volta in volta forgiata per la salvaguardia di prerogative e identità, così come la capacità di contrattazione e negoziazione per il mantenimento di equilibri ritenuti fondamentali per la definizione di pratiche di governo condivise.
Questo nuovo approccio metodologico ha dato origine a filoni di ricerca nuovi, che hanno adottato quale assunto imprescindibile la consapevolezza dell’impossibilità di studiare la Monarchia spagnola se non nella sua dimensione imperiale: storia mediterranea e atlantica non possono più essere considerate come due aree separate, ma necessitano di un’analisi congiunta, che riesca a mettere in relazioni fenomeni, uomini, istituzioni. Tra le molteplici chiavi di lettura adottabili per connettere spazi, istituzioni e tradizioni politiche differenti, l’analisi delle pratiche negoziali è ritenuta una delle più efficaci. A lungo trascurate dalla storiografia sulla prima età moderna –tesa piuttosto a considerare, quali dinamiche fondanti, l’uso della forza, la gestione di reti clientelari come strumenti di trasmissione di potere e i conflitti giurisdizionali– le pratiche negoziali rivelano la natura poliedrica degli interessi trasversali, delle relazioni tra pulsioni centralizzanti e strutture policentriche, e assumono la funzione di tessuto connettivo di spazi e compagini istituzionali eterogenei.
In questo ampio ambito di ricerche, la possibilità di focalizzare l’attenzione sulle esperienze individuali consente di intrecciare livelli di riflessione differenti e di giungere a definizioni interessanti. Solo muovendo da quanto finora scritto in relazione a un approccio storiografico che tiene conto della dimensione policentrica della Monarchia (Cardim, Herzog, Ruíz Ibáñez, Sabatini, 2012), che individua nella negoziazione una chiave di lettura per tenere insieme la poliedrica natura degli spazi politici e che recepisce l’importanza dei percorsi dei singoli attori, si può comprendere il passaggio dalla descrizione delle biografie politiche –di nobili, ministri, militari, religiosi– alla definizione delle carriere transnazionali. Non si tratta di una superficiale differenza semantica, ma la diversità tra le prime e le seconde ha una profondità concettuale. Come si proverà a esplicitare nel presente saggio, prima della “rottura storiografica” le biografie degli uomini incaricati di rappresentare a livello locale il potere regio furono ricostruite come fossero immagini statiche, senza tener conto delle profonde relazione che intercorrevano tra ciò che precedeva una determinata carica, o ciò che sarebbe accaduto alla fine del mandato. Come fossero linee parallele, le esperienze vissute in luoghi diversi costituivano elementi isolati, definiti, circoscritti. Ugualmente lo studio delle élite aristocratiche dei regni italiani fu fortemente condizionato dalla prospettiva della storia economica, che mirava soprattutto a mettere in evidenza l’importanza del patrimonio feudale e della sua trasmissione attraverso il fedecomesso e la primogenitura, dei legami familiari e delle strategie matrimoniali, delle attività produttive condotte nei rispettivi feudi etc.
Dalle istituzioni agli attori. Biografie politiche e carriere transnazionali
Nelle ultime decadi il ritardo che la storiografia italiana aveva registrato nei confronti di quella di area anglosassone sicuramente, ma anche francese e spagnola è stato dunque via via colmato. In primo luogo, attraverso una nuova prospettiva transnazionale, si è superata la visione delle élite quasi esclusivamente proiettate sulle realtà locali, come se fossero espressione di un binomio indissolubile casata/territorio e come se su questo binomio si articolasse l’acquisizione di maggiore peso politico, o se ne determinasse la decadenza. Secondariamente, l’ampliamento degli spazi di analisi –intesi come spazi politici, istituzionali e geografici– e lo sguardo agli attori che in questi spazi agivano, ha consentito di riflettere sulle interazioni individuali e di gruppo, sulla sovrapposizione o divergenza di interessi privati e “pubblici”, sulle relazioni e sui network che si dispiegano all’interno di molteplici contesti geo-politici e confessionali.
Ne emerge un indirizzo di ricerca che, da un lato, non si appiattisce sulla scelta di una dimensione spaziale circoscritta, e dall’altro non attribuisce al paradigma della mobilità e della circolazione un valore intrinseco, ma lo legge in connessione alla sedimentazione delle esperienze maturate in tempi e luoghi definiti. La mobilità diventa, in definitiva, in una analisi diacronica del cursus honorum del singolo, la chiave per interpretare saperi e conoscenze, un elemento dirimente per unire le esperienze vissute e maturate nelle congiunture di stanzialità. Contano le reti –lignaggi, clientele, patronage– le relazioni interne (simmetriche o meno), le alleanze e strategie matrimoniali, gli itinerari generazionali, le basi sociali e culturali. In definitiva, il lignaggio viene visto in una prospettiva “globale”, come “rete di sostegno per l’internazionalizzazione” (Cirillo, 2020). In quest’ottica, la ricostruzione delle carriere transnazionali non fornisce un dato meramente prosopografico, ma consente anche di mostrare il grado di interazione fra i molteplici interessi dei ministri della Monarchia, che nel loro agire rispondevano a esigenze e aspirazioni personali e familiari e, quali alter ego del sovrano, divenivano espressione del potere regio (Sabatini, 2010: 16; Mazín Gómez, Ruiz Ibáñez, 2012).[2]
Diverse sono le questioni che si delineano attorno a questo nuovo paradigma storiografico. La prima riguarda le carriere in relazione a una mobilità “policentrata” (Moutoukias, 2013), una circolazione “orizzontale”, che non traccia percorsi unidirezionali, che muovono dal centro (Madrid) verso un qualunque luogo della monarchia. Partendo da questo assunto la mobilità diviene funzionale a superare il classico paradigma centro-periferia, e a comprendere l’importanza di connettere le esperienze dei singoli attori con le comunità locali, i poteri intermedi e centrali, non come se seguissero percorsi paralleli ma come elementi che si forgiano e che definiscono le proprie funzioni grazie a continui scambi e interazioni.
La seconda questione riguarda le aspettative, le aspirazioni, e la presenza o meno di strategie nella costruzione delle carriere transnazionali. Ciò significa sottolineare quanto accanto all’attenzione rivolta al consolidamento del patrimonio materiale, nella definizione di un cursus honorum si ponesse attenzione al patrimonio “immateriale” (Bourdieu, 2004) –in termini di onore, prestigio, riconoscimenti– e alla possibilità di rafforzare quello che può definirsi il “capitale sociale”, ovvero quella sedimentazione e memoria di relazioni e di esperienze che trasversalmente legavano il luogo di origine, le tappe intermedie e le destinazioni finali.
Una terza questione riguarda le possibilità degli attori politici che agivano all’interno della Monarchia di scegliere la tipologia del percorso da intraprendere. E’ una questione che viene ben messa in evidenza da Tamar Herzog (2020):
“In ogni dato momento si presentavano più opzioni e la scelta tra ognuna di esse non era mai facile, né evidente. Inoltre, se onore e prestigio costituivano elementi essenziali, non di meno lo erano il riconoscimento, la capacità di accrescere il patrimonio economico, di rafforzare le relazioni sociali e di agire nel rispetto di un obbligo morale; se il servizio al Re rappresentava un vettore diretto, la famiglia e le reti sociali ne costituivano un altro; se il successo veniva talvolta misurato in base al profitto economico o ai progressi professionali, in altri casi era collegato alla capacità di imporre i propri criteri, di garantire la pace, di essere considerati uomini leali o di tessere nuove importanti reti personali. In effetti, nella prima età moderna, non era così semplice discernere con chiarezza ciò che poteva essere considerato “successo” e ciò che era ritenuto “fallimento”. In entrambi i casi, difficilmente se ne conoscevano e comprendevano le origini […] Quanto sono stati liberi gli attori di scegliere? Quali erano le loro opzioni? Cosa sapevano? Come lo sapevano? Si preoccupavano principalmente della costruzione della loro carriera o anteponevano gli equilibri familiari? Il prestigio era più importante del denaro? Era riconoscimento e potere? Era il servizio alla Monarchia spagnola l’unica opzione o gli stessi attori avrebbero potuto scegliere di rimanere ai margini, o addirittura di essere al servizio di un altro potere?”
Le questioni esplicitate costituiscono la base da cui hanno avuto origine le ricerche che ho condotto e di cui presento in questa sede due case study, molto diversi fra loro per traiettoria politica, cronologia, spazi di intervento, reti relazionali costruite. Proprio questa eterogeneità rafforza però il principio teorico che si intende proporre, ovvero quanto la ricostruzione delle carriere transnazionali possa costituire un punto d’osservazione particolarmente significativo per legare “micropolitica” e contesti istituzionali (Broggio, 2016; Sabbatini, Volpini, 2011; Visceglia, 2007), dinamiche cortigiane e reti di rapporti personali e, soprattutto, per connettere quegli spazi geografici e politici distanti in cui gli attori agiscono, governano, negoziano, consolidano il proprio potere (Andretta, 2006; Andretta, Péquignot, Schaub, Waquet, Windler, 2010; Andretta, Péquignot, Waquet, 2015; Frigo, 1999 e 2000; Rivero Rodriguez, 2000).
Giovanni Vincenzo Casali. Un frate architetto ingegnere tra Napoli, Madrid e Lisbona
Il primo caso è sicuramente meno noto, ma per questo probabilmente più interessante. E’ quello di Giovanni Vincenzo Casali, frate dell’ordine dei Servi di Maria di Firenze, che nella seconda metà del XVI secolo studiò architettura e idraulica fra la Toscana, lo Stato Pontificio, la Francia, e che ricevette da Filippo II la nomina di “architetto militare”, una funzione che svolse fra Napoli, Madrid e Lisbona (Favarò, 2018; Strazzullo, 1969: 65-75; Lanzarini, 2000 e 2001; Quarto, 2005; Tufano, 2011).
Al di là degli elementi meramente biografici, la figura di Casali diventa un osservatorio privilegiato da dove è possibile scorgere orizzonti in grado di rivelare le interconnessioni tra i molteplici piani di analisi e di legare la dimensione locale con il più ampio contesto internazionale della Monarchia iberica.
Scultore formatosi alla scuola del famoso frate Giovanni Angelo Montorsoli, allievo “prediletto” di Michelangelo, Casali si costruì, nell’arco di breve tempo, una carriera artistica che gli diede la possibilità di svolgere lunghi periodi di residenza lontano dalle mura del convento di S. Annunziata, nel quale era stato accolto nel 1558.[3] Oltre al legame con Montorsoli, consolidato fra la fine degli anni Cinquanta del Cinquecento e l’inizio della decade successiva, furono la nomina, probabilmente nel 1566, a membro dell’Accademia del Disegno fondata da Giorgio Vasari e, soprattutto, le committenze ricevute dai de’ Medici a inserire Casali in un circuito in cui l’arte costituiva uno degli strumenti più efficaci per la manifestazione simbolica del potere (Lanzarini, 2001: 38). La presenza alla corte della famiglia fiorentina, in occasione delle nozze fra Francesco I e Giovanna d’Austria[4] e il legame instaurato con il cardinale Ferdinando de’ Medici, dal quale ricevette l’incarico di restaurare alcune statue dei sepolcri antichi presso la villa al Pincio, furono gli elementi di maggiore importanza nel processo di rafforzamento della sua partecipazione ai circoli artistici che gravitavano attorno ai palazzi di corte e alle residenze dell’aristocrazia romana e napoletana. Se dal punto di vista artistico furono il contatto con il gruppo vicino all’architetto Giacomo della Porta e la frequentazione della bottega di Antonio Lafréry a costituire un significativo momento di crescita,[5] da una prospettiva prettamente politica fu invece l’incontro con il cardinale Antonio Perrenot di Granvelle[6] –in quegli anni a Roma in veste di Camerlengo del Sacro Collegio– ad aprire al Casali nuove e inattese prospettive (Brunetti, 2007; Legnani, 2013).
In tale contesto, il coinvolgimento del frate servita nella realizzazione di elementi di architettura militare consente di evidenziare:
- quale sia stata la rete relazionale tessuta con lo scopo di entrare, tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta del Cinquecento, nella cerchia di fiducia dei viceré napoletani;
-la sua capacità di mettere a frutto l’esperienza di scultore e le conoscenze idrauliche e di applicarle in ambito militare;
-l’abilità mostrata nel definire un percorso transnazionale che lo portò ad avvicinarsi alla figura del sovrano Filippo II e di diventare un fidato interlocutore per portare a compimento il progetto di ridefinizione della struttura fortificatoria alle porte di Lisbona;
-la collaborazione intrattenuta con alcuni architetti di grande spessore –fra tutti Tiburcio Spannocchi– durante la sua permanenza in Portogallo.
L’attività di Giovanni Vincenzo Casali al servizio di Filippo II si inserisce in una congiuntura politica complessa, durante la quale alla necessità di mantenere una struttura difensiva sul fronte mediterraneo si aggiungeva –all’indomani dell’unione della Corona portoghese nel 1580– l’esigenza di rafforzare la linea fortificatoria della costa lusitana, maggiormente esposta ai possibili attacchi mossi dalle flotte nemiche in area atlantica. In entrambi gli scenari Casali rivestì un ruolo di primo piano, entrando in contatto con gli ingegneri e architetti regi che avevano contribuito a diffondere il nuovo modello di architettura bastionata dalla Sicilia, alla Sardegna, ai presidi Nord Africani, e oltre.
Ci sono alcuni aspetti connessi a tale attività che sono funzionali a mettere in risalto la capacità di Casali nel costruire legami con esponenti della società locale, a diversi livelli. Tali capacità furono centrali per la costruzione della sua carriera avvenuta in un contesto in cui strategie e interessi personali si confrontarono e confusero con la sua appartenenza al mondo religioso e con il servizio “pubblico”. Le pratiche individuali divennero elemento non secondario nel modellare i modi in cui le varie sfere in cui era collocato (religiosa, laica, militare, civile) entravano in contatto. Così, più che sottolineare l’importanza della mobilità del frate –aspetto indubbiamente significativo nella definizione del cursus honorum del singolo e nel sostenere la tesi che la circolazione degli uomini fu di fatto coincidente con la circolazione di saperi, modelli e teorie di governo[7]– in questa prospettiva acquisisce maggiore valore la capacità di Giovanni Vincenzo Casali (e come la sua, in generale quella degli uomini che rivestivano differenti incarichi politici, tecnici e amministrativi), di tessere reti relazioni con esponenti della società locale.
Quali sono le fonti che possono essere consultate per tracciare tali dinamiche? Se la ricostruzione delle biografie o delle carriere transnazionali degli uomini appartenenti all’alta aristocrazia è resa più agevole dalla possibilità di intrecciare fonti differenti e di sfruttare una documentazione eterogenea –soprattutto grazie alla presenza, sovente, di ricchissimi archivi familiari– in questo caso il processo è più complesso e si palesa la necessità di rintracciare informazioni in fondi archivistici che generalmente restituiscono dati utili alla definizione di altri quadri e contesti. Un esempio è fornito dalle carte prodotte nel corso della Visita Generale che si svolse nel regno di Napoli tra il 1581 e il 1584, ad opera di Lopez de Guzman, di nella quale Casali fu coinvolto per il sospetto di frode a scapito della Regia Corte.
La visita era volta a verificare se realmente il frate avesse ricevuto da diversi partitari delle forniture e le avesse utilizzate a scopi privati e non per la costruzione dell’arsenale, e se avesse ricevuto doni (in larga parte generi alimentari) quale ricompensa per favoritismi che avrebbero leso gli interessi della Corona. Nell’articolazione delle accuse e delle difese si pose l’accento su alcuni punti specifici, fra cui l’impegno di Casali in fabbriche private –sotto forma di “consulenza” e supervisione– dalle quali avrebbe ricevuto compensi non ratificati dalla Regia Corte. A giustificarne la condotta l’ipotesi che la fama e la competenza dimostrata nella conduzione delle fabbriche regie gli avessero consentito di inserirsi in un circuito più ampio e di avere quindi realizzato progetti e disegni per case di “particolari”, per i quali “in cambio del soldo che egli non ha voluto ricevere han procurato di mandargli alcuni presenti li quali lui ha ricevuti non come da persone intricate con la regia corte”.[8]
In realtà, la visita del Guzman non chiarisce l’azione del Casali, ma rivela la strategia di integrazione nel tessuto sociale locale messa in atto, a livelli differenti, dal religioso. Casali poteva contare sull’appoggio viceregio, almeno su quello di Granvelle e di Mondejar, e su una rete amicale, forse rafforzata da interessi e clientelismi, pronta a sostenerlo nella gestione della quotidianità. Inoltre, era riuscito ad ottenere la protezione del principe di Sulmona, allora Orazio Lannoy, rivelatasi uno strumento di mediazione fondamentale per contrattare con il cardinale Alessandro Farnese, protettore dell’Ordine dei Servi, e con il cardinal Giulio Antonio Santori di Santaseverina, viceprorettore, l’autorizzazione a trattenersi nel regno.
La vicinanza alla corte viceregia –nei primi anni Ottanta le fonti attestano il suo soggiorno presso una stanza nella residenza del Mondejar– così come il perdurare di committenze da parte dell’alta aristocrazia regnicola furono, quindi, un ulteriore tassello della strategia di Casali che, grazie a questi, riuscì a imboccare un sentiero che dal regno partenopeo lo portò a frequentare la stretta cerchia del sovrano, presente presso nuova residenza dell’Escorial. Alla partenza del duca de Osuna, al termine del mandato, Casali ebbe l’opportunità di seguirlo con l’obiettivo di sottoporre al sovrano il nuovo progetto su Castel Sant’Elmo. Nel breve periodo che trascorse in Spagna, alla fine degli anni Ottanta, entrò in contatto con don Diego Fernandez de Cabrera y Bobadilla, III conte di Chinchon e componente del Consiglio di Stato, che gli commissionò una revisione della struttura del Castello di Villaviciosa de Odon, e con don Alonso de Vargas, membro del Consiglio di Guerra e veterano del tercio che aveva combattuto nei Paesi Bassi. Fu proprio dietro indicazione di quest’ultimo che Casali fu scelto per la ristrutturazione delle fortificazioni portoghesi che insistevano sull’area circostante la città di Lisbona. Questa evoluzione ci consente di riflettere ancora una volta sull’importanza della mobilità da un lato, e del consolidamento dell’esperienza vissuta a livello locale dall’altro.
Quando Casali giunse a Lisbona, presumibilmente nel 1589, si trovò ad operare in una realtà fortemente differente da quella che aveva lasciato nel regno di Napoli. Se nel regno partenopeo la rete amicale aveva costituito la base per il consolidamento della sua posizione e per l’inserimento nel più stretto circuito viceregio –con degli indubbi vantaggi di carattere economico– in Portogallo dovette agire in maniera più isolata, talvolta anche in contrapposizione con altri architetti interpellati per la realizzazione di opere di difesa. Il disagio di Casali, e il rimpianto per la conclusa esperienza napoletana, emerge chiaramente dalla corrispondenza che lo stesso intrattenne con Filippo II, anche se le retoriche utilizzate nelle missive rimandano pure ai modi della contrattazione volta a ‘massimizzare’ le ricadute positive dei servizi prestati.[9]
Carmine Nicola Caracciolo, principe di Santobuono. Da Napoli al viceregno del Perù
Il secondo esempio riguarda un componente dell’alta aristocrazia del regno di Napoli, Carmine Nicola Caracciolo, principe di Santobuono, la cui carriera si articola tra la penisola italiana, quella iberica e il viceregno del Perù. Ambasciatore presso la Santa Sede e la Repubblica di Venezia durante gli anni della guerra di Successione Spagnola (Favarò, 2019), il principe di Santobuono fu il primo italiano a ottenere la nomina nel vicereame andino. Negli anni di Filippo V, l’attribuzione di uffici e onori a esponenti dell’élite della penisola italiana, precedentemente riservati a un più ristretto gruppo di Grandes castigliani, fu uno dei più importanti strumenti di fidelizzazione. Non è un caso, dunque, che proprio in questa particolare congiuntura Carmine Nicola Caracciolo fosse stato insignito della carica.
La sua carriera –che ben si inserisce in quel processo che è stato posto come premessa alla presente riflessione– permette di approfondire le specificità delle esperienze, di leggere le attività dei singoli in relazione non soltanto alle dinamiche politiche internazionali, ma anche alla gestione del potere nei più circoscritti contesti locali. In tal senso, la figura di Carmine Nicola Caracciolo, consente di riflettere su alcuni aspetti particolarmente rilevanti:
- quali fossero i campi d’azione e i margini di manovra degli ambasciatori in contesti, militari e politici, conflittuali e in costante e rapida trasformazione;
- quali fossero i meccanismi della costruzione di reti di comunicazione segrete e sicure fra le diverse corti europee;
- in che modo le aspirazioni personali dei singoli trovassero soddisfazione in termini di prestigio, riconoscimenti, carriere.
Inoltre, il percorso biografico del principe di Santobuono offre la possibilità di mettere in evidenza quali dicotomie si nascondessero dietro esperienze superficialmente considerate lineari: la costruzione di un cursus honorum transnazionale a discapito di un percorso interamente incentrato nella dimensione regnicola; le strategie finalizzate a legare insieme gli obiettivi relativi al servizio pubblico, con quelli della carriera e personali; il problema della transizione e della difficile fedeltà bifronte, delle aristocrazie, nella frattura europea tra Asburgo e Borbone. Inserendosi nel più ampio contesto delle carriere transnazionali, articolatesi tra vecchio e nuovo mondo, il percorso politico del principe dimostra la complessità degli equilibri tra possesso feudale e governo politico, tra progetto dinastico e rappresentazione culturale, e diventa uno degli strumenti più funzionali per riunire più ambiti di riflessione: dalla geopolitica alla storia sociale del potere, dalle storie dinastiche alla storia diplomatica, dalla storia culturale alla storia di genere.
I luoghi e tempi in cui si costruì la carriera diplomatica di Carmine Nicola Caracciolo, così come il bagaglio culturale, la formazione e le reti familiari che concorsero a determinare la sua specifica esperienza, sono dunque funzionali alla ricostruzione delle dinamiche che gli permisero di consolidare il proprio percorso che alternò fortune e ostilità e che risentì fortemente degli andamenti del conflitto, della continua ridefinizione degli equilibri e della necessità, tanto di Filippo d’Angiò, quanto dell’Arciduca Carlo, di trovare fidati interlocutori che potessero contribuire alla difesa e al rafforzamento delle rispettive posizioni.
Nella costruzione della sua carriera, il principe di Santobuono aveva dimostrato di saper tessere reti relazionali con i più importanti esponenti delle corti francese e spagnola e, nella seconda decade del Settecento, di saper sfruttare la propensione di Filippo V a rafforzare il “partito italiano” a Madrid. Di tale gruppo Caracciolo divenne parte integrante e tassello strategico, soprattutto a seguito del legame stretto con il Cardinale Giulio Alberoni (Maqueda Abreu, 2009; Martínez Navas, 2010; Alabrús iglesias, 2011; Barrio Gozalo, 2011), presto diventato il principale interlocutore della regina Elisabetta Fernese (Fragnito, 2009; Mafrici, 1999 e 2019; Sodano, 2018; Vázquez Gestal, 2013). La condivisione della linea politica del Cardinale e la partecipazione alla definizione di una nuova forma di governo –volta a privilegiare la via reservada per rafforzare, in primo luogo, il proprio potere e, secondariamente, la nuova nuova Secretaría del Despacho Universal de asuntos de Indias a scapito delle prerogative e delle funzioni fino ad allora assunte dal Consejo de Indias (Kuethe, 2013: 24; Crespo Solana, 1996)[10]. fecero sì che Caracciolo ne seguisse le sorti, dall’ascesa al rapido declino.
Ancora una volta, non è mio interesse soffermarmi sulla diffusione delle teorie di governo elaborate a Madrid e trasmesse e applicate nelle differenti aree della monarchia mediante la circolazione dei ministri del sovrano. Ritengo sia un impianto storiografico e metodologico che poco aiuta a comprendere le dinamiche di costruzione, consolidamento e conservazione della Monarchia. Di contro, l’attenzione è rivolta alla necessità di tenere insieme obiettivi e strategie differenti, nelle quali concorrono le relazioni tessute con le élite locali, le aspirazioni personali, la rete familiare presente a Lima e il rafforzamento del gruppo di potere al quale Caracciolo apparteneva.
Tutti questi elementi emergono con chiarezza nella documentazione, dalla corrispondenza del viceré –pubblica e privata– al corpus delle relazioni stilate, ai progetti di riforma e, in generale, a tutto ciò che testimonia le interazioni fra il viceré e le audiencias. Anche in questo caso, come fu la Visita per Casali, si può utilizzare il giudizio di residencia per evidenziare gli elementi più significativi degli esiti –positivi o negativi– delle pratiche negoziali e dei legami che Caracciolo manteneva con i sui familiares e con gli altri ministri impegnati nell’esercizio del potere.[11] Ovvero, quello che fu definito il “partito santobuonista”.
Proprio in questa prospettiva, che mira a mettere in evidenza come nella pratica di governo di esprimessero legami pregressi e attuali, quasi fossero sedimentati l’uno sull’altro, risulta funzionale fare riferimento a due uomini particolarmente vicini al viceré, che risultano allo stesso modo coinvolti nelle accuse mosse nel processo di residencia e che –attraversando le stesse rotte della mobilità– lo supportarono della definizione di un fulcro dal quale si sarebbero irradiate capillarmente le reti di potere. Il riferimento è a don Joseph de Patau, Juez de Contrabandos, e don Luis de Alarcon, sovrintendente delle miniere di Huencavelica. Il primo aveva già rivestito la carica di Alcalde de la Casa y Corte del re, ed era al fianco di Caracciolo dall’imbarco al porto di Cadice, nel settembre del 1715.[12] La sua nomina avrebbe dovuto garantire un più efficiente controllo sulle azioni di contrabbando che alimentavano un circuito di scambi di beni asiatici ed europei e che erano condotte trasversalmente, tanto da mercanti spagnoli quanto da stranieri (Bonialian, 2012, 2014, 2017).[13] In particolare, a partire dal 1717, avrebbe dovuto vigilare sul rispetto delle nuove disposizioni emanate tramite cedole regie, secondo le quali tutti i corregidores del regno avrebbero dovuto sequestrare il carico di merci dei mercanti scoperti a «vender y despachar para si» senza licenza (Andújar Castillo, 2008).[14] I due terzi del valore corrispettivo sarebbe confluito nelle casse del Real Fisco, mentre la quota rimanente sarebbe stata distribuita dal corregidor a coloro i quali avevano denunciato l’attività illecita o agli ufficiali che l’avevano supportato nella conduzione della confisca. L’azione congiunta di Caracciolo e de Patau –che in teoria avrebbe dovuto risanare le casse della Real Hacienda grazie all’imposizione di numerose ammende– aprì invece la via, secondo le accuse mosse contro il viceré, a facili arricchimenti personali.
Il secondo, don Luis Ambrosio de Alarcon, era già stato componente del Consejo de las Indias ed era considerata persona di “toda integridad zelo y disinteres”.[15] La sua nomina a sovrintendente delle miniere di Huencavelica riguardava un settore chiave dell’economia peruviana, ed era stata ritenuta necessaria per coadiuvare il viceré in un più efficiente controllo di corregidores e caciques; per semplificare i meccanismi di produzione, eccessivamente farraginosi, che moltiplicavano i tempi di estrazione e di fusione dei metalli preziosi e ne aumentavano sensibilmente i costi; per rivedere l’organizzazione del lavoro, attraverso la creazione di gremios (corporazioni di mestiere)[16] che rendessero più fluide le comunicazioni fra i viceré, gli ufficiali e i minatori.[17] Come si era verificato con de Patau, anche l’accusa rivolta a de Alarcon riguardava una presunta frode, ovvero una appropriazione indebita di diciotto pesos dei cinquantotto pagati per ogni quintale di metallo venduto. In entrambi i casi, le annotazioni prevedevano ulteriori controlli e sopralluoghi nelle abitazioni dei due ufficiali così che si potesse eventualmente prendere nota di beni detenuti illegalmente.
La lontananza dal cuore della Monarchia e l’assenza di una frequente corrispondenza con i suoi referenti a corte avevano impedito al principe di comprendere quanto gli equilibri fossero mutati durante la sua assenza, soprattutto in relazione al “partito italiano”, gruppo di potere solido e unito nel perseguimento di obiettivi comuni, ma adesso scalfito dalle scelte politiche poco accorte di alcuni dei suoi componenti.[18] Il ritorno del principe di Santobuono in un contesto, locale e internazionale, che era stato oggetto di mutamenti repentini e il suo inserimento all’interno dell’entourage del sovrano doveva essere nuovamente veicolato da interlocutori fidati che garantissero, ancora una volta, il suo coinvolgimento nelle attività politiche e di governo.
Come si era verificato in altri frangenti della sua carriera –al passaggio da Napoli alla corte pontificia e da questa all’ambasciata veneziana– Caracciolo dovette giocare una nuova partita dimostrando, con l’abilità e l’intraprendenza che l’avevano sempre contraddistinto, di poter ancora servire alla causa della Monarchia. Tuttavia questa volta ogni via apparve, nell’arco di breve tempo, preclusa e furono proprio i rapporti tra Caracciolo e Filippo V a palesare quanto i mutamenti a corte avessero compromesso la natura confidenziale della relazione che tra loro intercorreva.[19]
Alcune riflessioni conclusive
L’impianto metodologico a cui si è fatto riferimento e gli esempi di Giovanni Vincenzo Casali e di Carmine Nicola Caracciolo ritengo possano contribuire a superare la lettura della Monarchia Spagnola quale semplice addizione di spazi individuali e, di contro, per sostenere una interpretazione maggiormente orientata alla connessione fra spazi politici e geografici, connessione che rendeva possibili gli ibridismi, le sovrapposizioni di interessi, gli scambi trasversali, la sedimentazione di esperienze e reti relazionali. Si tratta di un punto di osservazione che permette, più di altri, di comprendere realmente come funzionasse la Monarchia nel suo complesso, includendo nello spettro di analisi territori, attori politici, contesti imperiali e pratiche di negoziazione, a diversi livelli.
In questa prospettiva, le carriere transnazionali diventano un utile strumento per andare al di là dello studio dell’esercizio del potere e dei modi di governare, e per mettere in risalto l’importanza del capitale relazionale, sociale, di volta in volta protetto, consolidato e aumentato. La mobilità dei ministri assume dunque una valenza ben diversa dall’essere vettore di teorie politiche elaborate in un centro e trasformate in pratiche di governo nei diversi territori della monarchia. E’ una mobilità che connette e sedimenta, che si nutre delle esperienze vissute nei momenti di stanzialità, durante i quali i singoli attori interagiscono con le istituzioni e le élite locali, e pongono le premesse per un cursus honorum che non è mai predefinito e tracciato, ma che evolve e si plasma in base alle mutevoli opportunità, agli esiti favorevoli (o meno) delle partite giocate come singoli, come membri di famiglie e fazioni, come rappresentanti del potere regio.
Riuscire a comprendere la fluidità dei percorsi non significa attribuire una valenza anacronistica alla possibilità di scegliere o seguire aspirazioni personali, ma ci restituisce una immagine meno lineare delle carriere, il cui dipanarsi in maniera transnazionale è il risultato di molteplici fattori connessi a sollecitazioni esterne, a negoziazioni intavolate altrove, all’ascesa e alla disgrazia di chi aveva, direttamente o indirettamente, supportato e patrocinato il cursus honorum.
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Nota